Relatore: Marco Minardi
A Parma sono arrivato per caso. Alla fine della guerra non avevo quasi più soldi, quelli che avevo guadagnato vendendo acciughe li avevo regalati a mio padre; con quei soldi si è comprato un piccolo podere. Allora mi sono detto: «Adesso vado giù, vado fino a Bologna, se trovo un posto e se mi lasciano lavorare, se il Comune mi dà una licenza…». Era il giorno dell’Epifania, era il 7 gennaio 1946. Stavo tornando su. Arrivati a Parma, là a Barriera Farini dove c’è il posto delle corriere, l’autista si ferma e mi dice: «Non si può più andare avanti, non si può più proseguire per Milano». Nevicava forte e non si poteva andare avanti […]. Mi hanno accompagnato in un borghetto, borgo Palmia, salgo le scale di questa casa con il soffitto tutto blu e trovo da dormire. Mi sono riposato e, quando mi sono risvegliato, ho fatto un giro per la città. Ho chiesto dove era il mercato… «In piazza Ghiaia». Vado… mi piaceva la Ghiaia, le scalette, il lungo Parma, ho guardato cosa c’era e poi ho visto un vigile… vado da lui e gli chiedo: «Si può venire a lavorare?».
(Testimonianza di Martino Degiovanni, Parma 1996)
Quando si dice lo spaccato di un ambiente e di un’epoca. Datata nel 1946, la testimonianza di Martino Degiovanni è esattamente questo, e lo è nella doppia accezione del termine. È la descrizione di quello che era “La Ghiaia” nel dopoguerra, ma è anche una rappresentazione diretta, immediata, dei modi di vita della città. Un comune sentire in un luogo magico che Marco Minardi ricostruisce e restituisce con delle testimonianze:
“Il mercato in sé e i suoi personaggi sono fattori determinanti nel condurre la gente a ‘fare la spesa in Ghiaia’. Le ortolane, gli ambulanti senza banco che vendono per pochi centesimi limoni, elastici, pettinini o palloncini, o le figure caratteristiche e i ‘barboni’ furono e rimangono presenze inscindibili del mercato, anche quando vivono solo nel ricordo collettivo.
Per questo Piazza Ghiaia riveste un’importanza del tutto particolare. Piazza Ghiaia è nella memoria collettiva di questa città il luogo della vita e delle relazioni commerciali tradizionali; è depositaria di una tradizione che ha toccato generazioni di parmigiani e di persone che questa città, anche provenendo da lontano, hanno conosciuto.
Nel mercato della ghiaia tutto poteva essere venduto, soprattutto frutta e verdura come testimonia Giorgio Michelotti:
“Cominciò la nonna, Marietta Zucchi, nel 1880: aprì un banco che in realtà era poco più di un carretto. Si fece i debiti: ci raccontava sempre dei creditori che andavano a trovarla. Col tempo, Elsa, che la affiancò qualche anno dopo, pagò tutti gli arretrati, e piano piano si iniziò a crescere” ricorda Maurizio. Lui, poco più che bambino iniziò a lavorare: “A 13 anni iniziai a fare il barista alla stazione, e poi venivo ad aiutare mia mamma e mio fratello Giorgio, qui in Ghiaia. Amata e odiata Ghiaia – racconta -, perché arrivavamo alle 4 del mattino e ci stavamo fino alle 10 di sera. Una gran fatica, mi creda, si trasportava tutto a braccia, e si stava fuori tutto il giorno, al gelo e con la neve, come gli uccellini. Tantissime, però, le soddisfazioni. Allora la piazza era un formicaio di persone: se la guardavi dalle scale ti sembrava un tappeto di teste. Oggi? A malincuore dico che l’hanno distrutta. Ma io sono fiducioso che un giorno tornerà a splendere, perché è stata e rimane un punto di riferimento per i Parmigiani”.
La quotidianità della Ghiaia, lungi dall’esaurirsi tra banchi i bancherelle, era fatta di mille altre cose. Persone che si incontravano, che scambiavano esperienze di vita, che erano orgogliose di un sentire comune.
Marco Minardi, nel proporre la propria relazione, ha scelto di non ripercorrere la storia della Ghiaia né tantomeno di ripercorrerne le vicende urbanistiche.
Ha invece optato di restituirne l’anima con la storia orale. E le storie ci sorprendono sempre: non necessitano di traduzione, sono permeate di slancio vitale e insieme dell’inevitabilità dei cambiamenti. Inducono ad un poco di smarrimento.
Marco Minardi, Direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, da perenne ricercatore, dissemina domande e notazioni sulla natura di questo “luogo magico” di una Parma popolare, eterogenea, in cui ancora vive una cultura originale, che si deve potere misurare con le mutate condizioni di una società in continua trasformazione, un luogo che deve essere protetto e valorizzato.
Che soprattutto deve essere ascoltato.
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Maria Pia Bariggi
Quand’è l’alba la piazza è già piena di carri, di banchi e di voci e di odori. Un’ora prima, due ombre, poi tre, quattro, arrivano dai vicoli e si disperdono: resta, del loro passaggio, il presagio dell’imminente animamento. E l’aria palpita come percossa da ali invisibili. Da un caffè appena aperto esce una lama di luce bianca sulla quale i primi clienti passano come davanti ad uno schermo, incorporei ancora, e rattrappiti in una voglia allucinante di riposo. Dietro al banco una signora dignitosa ed alacre serve la gente, …vestita di nero lustro e di capelli bianchi… Quelle strane facce di ortolane astute e fredde, di carrettieri cisposi e rubizzi e taciti in questo svegliarsi del giorno trasportano volentieri in un’epoca romantica e abbandonata. Che ressa, dopo, intorno alle pile di cacio, ai cesti di verdura ancora stillante di rugiada, o alle venditrici di nastri pizzi e altre diavolerie della più dimessa vanità femminile! Viene fuori dalle botteghe un fiume di roba, ad accatastarsi sui camion, sulle carrette per disperdersi dopo nei quartieri lontani…
Cesare Zavattini, Piazza della Ghiaia, in “La fiamma di Parma”, 8 ottobre 1928
Lori Carpi
ultimo aggiornamento della pagina: 10 aprile 2016