Giovanna D’Arco:
una vita assediata

Relatore: Italo Comelli

Lo storico Italo Comelli, lo studioso Italo Comelli, inizia la dissertazione del 7 novembre su Giovanna d’Arco con una digressione sul complesso periodo storico in cui la Santa visse. Ricostruisce quindi, in modo trascinante e coinvolgente, la Guerra dei Cento Anni. Il conflitto, che si sviluppò dal 1337 al 1453, fu costellato da tregue più o meno brevi e interrotto da due periodi di vera e propria pace della durata rispettivamente di 9 e 26 anni che lo dividono così in tre fasi principali: la guerra edoardiana (1337-1360), la guerra carolina (1369-1389) e la guerra dei Lancaster (1415-1429), alle quali deve essere aggiunta la fase conclusiva del conflitto (1429-1453). Tale suddivisione è tipica della storiografia anglosassone, mentre altre periodizzazioni, in particolare quella francese, prevedono una prima (1337-1389) ed una seconda fase (1415-1453).

L’inizio delle ostilità fu totalmente a sfavore dei Francesi. In particolare Enrico V, approfittando delle lotte interne intervenne a favore dei Borgognoni e annientò l’esercito francese nella sante Caterina d’Alessandria e Margherita d’Antiochia. Sebbene gli storici inglesi minimizzino il ruolo che ella ebbe nello svolgersi degli eventi, è tuttavia impossibile ignorare che da quel momento in poi la guerra registrò una svolta di non poco conto. Le truppe del delfino infatti guidate da Giovanna ruppero l’assedio di Orléans (da tale impresa derivò il soprannome di “Pulzella d’Orléans”) infliggendo una pesante sconfitta alle forze inglesi e portando alle stelle il morale dei Francesi che imbaldanziti sconfissero una seconda volta l’esercito del Bedford nella battaglia di Patay e riuscirono a liberare tutti i territori occupati fino a Reims, dove Carlo VII si fece incoronare. Mentre per Giovanna sarebbe stato opportuno continuare la guerra fino alla totale cacciata degli Inglesi, il sovrano preferì intavolare delle trattative col nemico. La Pulzella allora continuò le proprie spedizioni fino a quando nel 1430 fu catturata dai Borgognoni a Compiègne e consegnata agli Inglesi per 10.000 lire tornesi, processata per eresia e infine condannata a morte (1431) senza che apparentemente Carlo VII intervenisse. La figura di Giovanna fu riabilitata solamente al termine della guerra (1456), per diventare un personaggio leggendario della storia francese e uno dei simboli più significativi della Francia monarchica e cristiana. Con la Rivoluzione francese del 1789 anche questa immagine, come tantissime altre dell’Ancien Régime, sarà spazzata via o perlomeno oscurata dai nuovi simboli della rivoluzione. Nel 1920 (a 489 anni di distanza dalla sua morte) Giovanna d’Arco fu canonizzata da papa Benedetto XV e nello stesso anno la Francia le dedicò una festa nazionale tuttora in vigore.

Nonostante il lento ma inesorabile scorrere dei secoli, numerosi aspetti della figura di Giovanna d’Arco sono ancora incerti. Persino il nome.

Infatti, come ribadito da lei durante il processo, tutti, nel paese d’origine di Domrèmy (dipendente dal castello di Vaucouleurs, nel ducato di Bar, sulla riva sinistra della Mosa) l’avevano sempre chiamata Jeannette, fino all’arrivo in quella che allora poteva essere chiamata a buon diritto Francia (l’odierna parte centrale del Paese), ovvero gli scarni possedimenti dei re francesi, dove le fu attribuito il nome di Jeanne (italianizzato, Giovanna). Il cognome, poi, comparso per la prima volta nel processo di riabilitazione del 1455, prima di fissarsi nel corso dell’Ottocento nella forma universalmente nota, d’Arc, apparve nelle più svariate grafie: Dars, Dai, Day, Darx, Tarc, Tard, Dart, Tart. Comunque sia, Giovanna nacque intorno al 1412, si dice il giorno dell’Epifania, da Jacques e Isabelle Romèe. Aveva quattro fratelli, tre maschi (Jacques, Pierre e Jean) e una femmina (Catherine), i cui nomi esemplificavano perfettamente la devozione e l’impegno della famiglia nel pellegrinaggio, rappresentando i quattro maggiori santuari medievali (Santiago, Roma, Gerusalemme, Sinai).

Giovanna fanciulla devota che viveva in un mondo di credenze, conoscenze per lo più tecniche e manuali, leggende, tradizioni locali; Giovanna che nell’estate del 1425, all’età di tredici anni, udì per la prima volta le “voci”, secondo la tradizione nel “Bois Chenu”, il bosco “magico”, poco lontano dall’abitato. Le apparve, sostenne lei, l’arcangelo Michele: una figura ricca di significati nella Francia del tempo, protettore effettivo dei francesi, che dava il nome a Saint-Michel-au-Pèril-de-la-Mer (oggi noto semplicemente come Mont-Saint-Michel), tra Bretagna e Normandia; la piazzaforte isolata dal mare e consacrata all’arcangelo che resisteva agli inglesi, e resisteva con valore. Le parlarono, più tardi, Margherita d’Antiochia e Caterina d’Alessandria.

I contenuti erano impegnativi: la missione che Dio le assegnava era, nientemeno, che liberare la Francia. Doveva quindi recarsi in “Francia” (le terre del Delfino), e liberare Orlèans, sentinella avanzata dei possedimenti reali lungo la Loira, sotto assedio inglese dall’ottobre del 1428.

Giovanna, in abiti maschili, a cavallo, con una scorta di armati, verso il castello di Chinon, distante seicento chilometri, residenza del “suo dolce delfino”, come lo chiamava lei;  Giovanna che Il 6 marzo, una domenica, entrò nella sala grande del castello. Poi l’Università di Poitiers dove la ragazza fu interrogata a lungo e divenne

“la pulzella”.

Lei stessa scelse lo stendardo, con Dio assiso sull’arcobaleno, affiancato da due angeli recanti tra le mani il giglio di Francia. Cristo era indicato con il trigramma IHS, d’origine francescana. E fu Orleans.

Da sei mesi Orlèans resisteva, e dai sei mesi le comunicazioni con l’esterno erano interrotte, eccetto attraverso la porta rivolta verso Gien. Giovanna vi entrò il 29 aprile.

“Sgombrate il campo, nel nome del Signore e secondo la sua volontà”, aveva ingiunto agli inglesi; le rispose un coro di insulti, l’atmosfera si surriscaldò velocemente, e si narra di un breve ma feroce scontro verbale tra la fanciulla ed il comandante avversario, Glasdale, da lei soprannominato Glacidas, con ironico riferimento al gracidare delle rane. E proprio in un fiume poco distante, di lì a poco, quest’ultimo sarebbe affogato; allora cominciarono a chiamarla “strega”.

Il 4 maggio iniziò l’attacco francese, che, dopo la sosta per il giovedì dell’Ascensione, proseguì nei giorni seguenti. Giovanna fu ferita due volte, il 6 ed il 7, la prima volta al piede e la seconda al collo. Rifiutò ogni cura, eccetto un impacco d’olio e lardo, e ritornò a battersi.

L’8 maggio 1429, Orlèans fu liberata. La Francia tutta, alla notizia, esplose in un entusiasmo sincero, ed ammirato. La ragazza in armatura diceva il vero.

Ma Giovanna, la Pulzella, aveva le idee chiare. La liberazione di Orlèans era un segno, estremamente chiaro, del volere divino: l’incoronazione di Carlo di Valois come legittimo sovrano dei francesi, secondo la tradizione dei re franchi, nella cattedrale di Reims. Carlo accettò. I Francesi iniziarono a riportare vittorie.

Con il nuovo comandante dell’armata del Delfino, Giovanni II duca d’Alençon, “il bel duca”, caddero Meung-sur-Loire, Beaugency, Patay, e la strada per Reims fu aperta.

Giovanna ispiratrice di entusiasmo messianico:

La cavalcata per Reims cominciò a Gien, e durò venticinque giorni; la Pulzella ed il duca d’Alençon scortarono il loro re al battesimo. Giovanna invitò alla cerimonia anche il duca di Borgogna; questi non si premurò di risponderle, ma un suo tacito assenso sembra indiscutibile, visto l’appoggio offerto da molte sue città dello Champagne (Auxerre, Troyes, Chalons). In quei giorni, le fortune del re, e della sua Pulzella, toccarono lo zenith. Tutti volevano vederla, tutti volevano omaggiarla, i cavalieri stessi cercavano di apparirne degni. Alla sera del 16 luglio, l’armata arrivò alle porte di Reims. La mattina seguente, dopo aver prelevato la Santa Ampolla (secondo la leggenda, recata dagli angeli per il battesimo di Clodoveo), si svolse la cerimonia nella cattedrale; i “pari del regno” depositarono sul regio capo la corona, mentre Giovanna la Pulzella, imperterrita ed orgogliosa, rimaneva al fianco del Delfino, sventolando il suo bianco stendardo. Era il 17 luglio 1429.

Ricominciò l’offensiva, stavolta in direzione di Parigi. Nonostante sembrasse imminente una tregua con la Borgogna, la strada aperta verso Parigi spinse il novello re di Francia, ora Carlo VII, a tentare l’impresa. Tra Parigi e Compiègne, il 15 agosto di quell’anno, i due eserciti si incontrarono.

Ma fu una giornata particolare, e, un po’ per la riluttanza di entrambi gli schieramenti (gli Inglesi temevano un altro rovescio, i Francesi volevano soprattutto raggiungere Parigi), un po’ per le condizioni climatiche (caldo afoso, nebbia fitta), quello strano carosello di soldati che apparivano e scomparivano all’orizzonte terminò con un nulla di fatto.

L’attacco dell’8 settembre verso la Porta Saint-Honorè fallì, e Giovanna fu ferita ancora, da un colpo di balestra.

Il giorno dopo, re Carlo ordinò all’esercito di ritirarsi a Saint-Denis. Giovanna aveva perso sul campo, e, quel ch’è peggio, a corte. L’armata venne sciolta e la pulzella iniziò a perdere potere.

Alla fine di marzo Giovanna lasciò Sully, con duecento mercenari piemontesi agli ordini di Bartolomeo Baretta. Passò per Melun e Lagny-sur-Marne (dove, pare, riportò un bambino in vita il tempo necessario per il battesimo: un miracolo abbastanza comune al tempo e chiamato in Francia “rèpit”, “tregua”), diretta verso Compiègne, assediata dai borgognoni. Qui prese Margny, una delle fortezze costruite dagli avversari per l’assedio: ma il loro contrattacco la colse sola, fuori dalle mura della città, che le si chiusero davanti. Venne catturata da Lionel de Wamdonne, luogotenente di Jean de Luxembourg conte di Ligny, vassallo borgognone, il 23 maggio dell’anno 1430, un martedì.

Carlo VII, il suo “dolce re”, non provò ad intavolare una trattativa, né a liberarla in alcun modo, nonostante la sua corona dorata derivasse, in gran parte, da lei. Il granduca d’Occidente Filippo III di Borgogna, che si trovava a guerreggiare da quelle parti, volle incontrarla, per poi impegnarsi altrettanto decisamente a minimizzare gli effetti del colloquio. La corte di Carlo fece lo stesso: prese cioè a ridicolizzarla, a screditarla agli occhi della Francia, minimizzando il suo contributo (enorme, e ben più evidente di quelle misere manovre politiche) nella guerra.

Il cancelliere del regno arrivò a sostenere che la fanciulla si era “perduta per la sua superbia”, e che era pronto a sostituirla un pastorello, “emulo”, proveniente dal Gevaudan. Rapidamente, l’Università di Parigi, il 26 maggio, chiese, in forma epistolare, che la ragazza fosse processata dall’Inquisitore di Francia, in quanto sospetta d’eresia.

Giovanna fu abbandonata da tutti e catalizzò, da subito, un’enorme attenzione, specie nelle inedite vesti di prigioniera inerme. Figure di rilievo o meno volevano vederla, ora, docile ed immobile: tra questi, Isabella del Portogallo, consorte del duca di Borgogna, che pare ne rimase affascinata al punto da incedere in suo favore.

Giovanna tentò una rocambolesca fuga dalla torre, calandosi lungo la struttura, forse esasperata dalla separazione con il fratello, Pierre, e Jean d’Aulon, suo “attendente” ed amico; ma cadde, e si ferì seriamente.

Contro di lei, ufficialmente, si muoveva ormai l’Inquisizione, nella figura del vescovo di Beauvais Pierre Cauchon; l’Inghilterra mise sul piatto fiumi di denaro per ottenere la prigioniera, ovvero diecimila lire tornesi, oltre che l’influenza di Cauchon. Al principio di novembre, forse ad Arras, Giovanna passò in mani inglesi. Carlo VII osservò la vicenda, in silenzio.

Arrivò a Rouen il 23 dicembre di quel lungo 1430; il 9 gennaio, Pierre Cauchon aprì il processo, che si divideva in due fasi: “l’istruttoria”, fondata sulle testimonianze raccolte su una supposta cattiva fama della Pulzella, ed una “ordinaria”, con l’invito a pentirsi, o, se strettamente necessario, la tortura e la sentenza. La prima durò fino al 26 marzo, accompagnata dall’arrivo alla spicciolata della “corte”: un pubblico ministero (“promotore della causa”), Jean d’Estivet, un consigliere esaminatore, Jean de la Fontane, tre notai cancellieri, sei universitari parigini e una sessantina di prelati e avvocati come assessori, ed un secondo giudice, individuato dopo dinieghi e tentennamenti in Jean Le Maistre. Nella prima fase, almeno, la Pulzella non rischiava la morte: sarebbe bastato ammettere l’eresia;  ma Giovanna mostrava di credere alle sue “voci”, e le difendeva con successo. A partire dal 21 febbraio la ragazza fu interrogata, sei volte in pubblico e altre in privato, nella sua cella, senza mai aver diritto ad un difensore, da alcune delle menti più esperte in campo teologico, quelle dell’Università di Parigi.

Furono studiate le sue consuetudini religiose, le sue abitudini, le sue conoscenze; inoltre, fu svolta un’indagine nel suo paese natale, Domrèmy, soprattutto riguardo l’ “albero delle fate”, il “Bois Chenu” ed altri rimasugli di spiritualità celtica, che si rivelò favorevole all’accusata.

Alle richieste di giuramento, rispose che l’avrebbe fatto, ma si riservò il diritto di tacere sugli argomenti che le “voci” non volevano fossero affrontati.

Forse, insieme a quello delle “voci”, l’altro punto sensibile era quello dell’abito maschile, ed i suoi avversari se ne accorsero presto: “La donna non vestirà abito d’uomo, né l’uomo abito di donna”, recitava infatti il Deutoronomio (22,5), “chi lo farà, sarà abominevole agli occhi di Dio”, e lo stesso doveva avvenire con i capelli, come ricordato con forza da Paolo di Tarso; oltre a ciò, la sua condotta andava a scontrarsi con la tendenza, nel periodo, a favorire una certa standardizzazione (e “corporazione”) del vestiario, in linea con la morale pubblica (almeno secondo la Chiesa), in base quindi al sesso ed al mestiere d’appartenenza. A peggiorare le cose, Giovanna, così abbigliata, aveva osato prendere i sacramenti, e quindi mostrarsi al cospetto di Dio. “Per quello che dipende da me, io non cambierò d’abito per fare la Comunione. Permettetemi di sentir messa in abito maschile: quest’abito non cambia la mia anima. Indossarlo non è contro la Chiesa!”, arrivò ad affermare con forza, alla fine della prima fase del processo.

Da sabato 17 a giovedì 22 marzo, gli inquirenti si riunirono per chiudere il “processo d’ufficio”, ed il 24 i verbali dell’interrogatorio furono letti alla prigioniera. Il 27 dello stesso mese, si aprì la seconda fase: il “processo ordinario”.

A questo punto le venne sottoposto l’elenco delle accuse, che contava settantadue punti: ma Giovanna lo rifiutò integralmente.

“Incantatrice e indovina, falsa profetessa, invocatrice e scongiuratrice di malvagi spiriti, superstiziosa, dedita alle arti magiche, malpensante, scismatica, poco ferma e poco sicura nella fede, di fede sacrilega, idolatra, apostata, maldicente e malfacente, bestemmiatrice nei confronti di Dio e dei santi, scandalosa, sediziosa, turbatrice e osteggiatrice della pace, incitante alla guerra”. Riassumendo, le accuse sono fondamentalmente le tre precedentemente trattate: la provenienza divina delle “voci”, l’abito maschile, il rifiuto dell’intermediazione della Chiesa visibile nel rapporto con quella celeste.

Il 9 maggio fu minacciata di tortura dai suoi giudici.

I dottori di Rouen, riuniti, decisero il 19 di organizzare una pubblica cerimonia, in cui farla confessare. Era la sua ultima possibilità, fu sottolineato, di evitare il braccio secolare, e con esso il fuoco. Probabilmente, a spingere in questa direzione erano in questa fase coloro che avevano più a cuore la sua sorte: era nel suo interesse. E, dopo una pressione di questo tipo, probabilmente esausta nel corpo e nella mente, accettò di abiurare, il 24 maggio, in una cerimonia, organizzata in fretta e furia, al cimitero di Saint-Ouen.

Quel giorno il magister Guillaume riprese il passo del Vangelo di Giovanni (15,1-6) sull’unità della Chiesa: ”Io sono la vera vite, il Padre mio è il coltivatore. Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo getterò via. Chi non rimane in me sarà gettato come tralcio e seccherà; e, raccolto, sarà buttato nel fuoco a bruciare”.

Ed il rogo era lì, a ricordarlo.

Giovanna, affranta, ebbe solo un sussulto, sentendo nominare il suo re, ed esplose: “Non nominatelo, egli è buon cristiano!”. Il suo appello all’autorità del papa, benché perfettamente lecito, fu lasciato cadere. Un documento di poche righe, di abiura, le fu sottoposto. E la Pulzella, di fronte ad una vasta folla, che non voleva perdersi lo spettacolo, lo sottoscrisse, con mano incerta, forse sostenuta da qualcuno.

Secondo alcuni era stravolta al punto da non capire cosa accettava, per altri fu minacciata di finire immediatamente sul rogo.

Per altri ancora, tracciò un cerchio, simbolo sarcastico, che usava già da tempo per indicare i documenti indegni di considerazione.

Tra gli altri impegni assunti al momento dell’abiura, c’era quello, fondamentale, della rinuncia all’abito maschile. Nella prigione inglese dove fu portata, le furono recapitati abiti femminili, che indossò, per la prima volta da quando era apparsa nella scena politica. Ma sulla cerimonia d’abiura, comunque, aleggiavano sinistri presagi: gli Inglesi sembravano delusi di quella conclusione incruenta, che, comunque la si giudichi, aveva salvato la vita alla Pulzella.

Il 27 maggio, festa della Trinità, il vescovo di Beauvais fu informato che Giovanna era tornata a vestirsi con abiti maschili, dichiarandosi perciò recidiva; e la lex Iulia de maiestate era abbastanza chiara riguardo la sorte degli eretici impenitenti.

Interrogata, immediatamente, ritrattò la sua abiura: “Tutto quello che ho detto e ritrattato, l’ho fatto solo per paura del fuoco. Non ho mai detto né inteso dir nulla per rinnegare le mie apparizioni, cioè che si trattava delle sante Margherita e Caterina. di quello che stava scritto nella formula di ritrattazione, non ho capito una sola parola! E poi, proprio in quel momento, dissi che non intendevo ritrattare nulla, qualora dispiacesse a Dio”. 

A posteriori, il clima di quei giorni concitati appare misterioso, e sospetto.

La macchina della morte non tardò un secondo ad attivarsi, in fretta.   

Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orlèans, fu accompagnata sul rogo il 30 maggio dell’anno 1431, nella pubblica piazza del Vieux-Marchè di Rouen.

Le venne permesso di confessarsi; ed un soldato inglese, per esaudire un suo desiderio, le fabbricò una croce, legando insieme due pezzetti di legno. Frate Isembard de la Pierre corse alla chiesa di Saint- Laurent, e vi prelevò una grande croce astile, che avvicinò al volto della giovane, in modo che, bruciando, potesse vederla.

Un secondo soldato inglese, che si rinfrescava in una taverna poco distante, disse di aver visto una colomba levarsi dal rogo che l’avvolgeva; un altro, accorso per alimentare le fiamme, s’arrestò di colpo, le mani a mezz’aria, sentendo la ragazza, avvolta dal fuoco, urlare più volte il nome di Gesù.

Aveva diciannove anni.

Italo Comelli

 

ultimo aggiornamento della pagina: 6 dicembre 2016