Relatori: Italo Comelli,
Isa Guastalla e Stefano Mazzacurati
“Quam multis varietatibus latio dissonante vulgari,
decentiorem atque illustrem Ytalie venemur loquelam”
Lunedì 7 maggio Italo Comelli intrattiene il pubblico sul tempo di Dante e sulla questione della lingua italiana nei secoli. Spiega che nel Trecento la civiltà comunale autonoma e libera era al tramonto a causa di una fortissima conflittualità: ghibellini e guelfi, guelfi neri e bianchi. Ricorda che Dante partecipa attivamente alla vita politica di Firenze in questo periodo di discordie, di improvvisi e radicali mutamenti. Partito nel 1301 per Roma, incaricato come ambasciatore, probabilmente non rivedrà più la sua patria perché verrà raggiunto, a Siena, dalla condanna all’esilio agli inizi del 1302.
Le peregrinazioni in varie città d’Italia gli consentono di avvicinare diversi dialetti parlati nella penisola e così, nel 1303-04, pone mano al De vulgari eloquentia, un’opera filosofica e dottrinaria dedicata al tema della lingua e della sua struttura. Proprio per giustificare l’adozione del volgare nelle opere scritte e far sì che questa scelta venga compresa dai suoi interlocutori, compone il suo trattato in latino, lingua dei dotti e della Chiesa.
Per il Poeta la lingua volgare italiana deve essere: 1) cardinale, perché comune tra tutti gli abitanti della penisola; 2) aulica, perché usata anche nella corti più nobili; 3) curiale, perché le sue regole devono essere fissate dalla “Curia”, cioè dall’insieme dei saggi e dei sapienti d’Italia, in sostituzione di uno stato unitario assente.
“Hoc autem vulgare quod illustre, cardinale, aulicum et curiale ostensum est, dicimus esse illud quod vulgare latium appellatur”
Comelli parla dell’alterna fortuna del libro nei secoli, elenca i letterati che nel tempo si sono applicati al tema della lingua italiana in un’Italia divisa fino al 1861 e indica Firenze come prima sede della Cattedra di Storia della Lingua italiana, affidata nel 1938 a Bruno Migliorini.
Continua il discorso Isa Guastalla sottolineando la modernità del Poeta quando sostiene che il volgare è idoneo a manifestare qualsiasi tipo di pensiero, quasi come il latino, e quando afferma che la lingua cambia nel tempo e nello spazio; ma ricorda anche che Natalino Sapegno, altro grande italianista, sosteneva che Dante aveva uno sguardo solo rivolto al passato.
L’opera avrebbe dovuto comporsi di quattro libri; Dante si ferma, tuttavia, al quattordicesimo capitolo del secondo libro, probabilmente per iniziare la stesura della sua opera maggiore: “La Divina Commedia”, esempio non più teorico della forza stilistica del volgare.
Nel I libro parla dell’origine e della storia della lingua: dalla confusione di Babele nacquero gli idiomi volgari di contro al latino, la gramatica.
Nel II della struttura della lingua, di stile e di metrica.
Tratta quindi la forma in cui meritano di essere composti i testi “Di queste forme la più eccellente è a nostro avviso la forma della canzone…”
Poi i temi: “I temi grandissimi da trattare in modo grandissimo appaiono pertanto tre: sopravvivenza, piacere amoroso, virtù; o, per meglio dire, valore nelle armi, ardore amoroso, volontà ben diretta: argomenti che più di tutti gli altri sono in relazione ai primi.”
Si sofferma sui versi da usare: “L’endecasillabo appare il più splendido di tutti questi versi, sia per la sua ampiezza, sia per la capacità di accogliere concetti, costrutti e vocaboli.” Ma aggiunge il settenario e, quindi, il quinario.
Prende anche in esame le parole da utilizzare: “Alcuni vocaboli vengono sentiti come infantili, alcuni come femminei, alcuni come virili; taluni di questi ultimi ci appaiono poi agresti, altri invece urbani. Infine, alcuni dei vocaboli che chiamiamo «urbani» ci sembrano pettinati e lisci; altri invece irsuti e ispidi. Sono appunto questi vocaboli «pettinati» e «irsuti» quelli cui diamo il nome di «grandiosi»; i vocaboli che nel suono presentano una ridondanza li definiamo invece «lisci» e «ispidi».”
Si può dire che con questa opera, l’autore cominci la storia della letteratura italiana, di cui egli racconta le vicende anche da un piano geografico, dividendo l’Italia in diverse parti, sia lungo la dorsale appenninica, sia in aree regionali separate dal corso del Po. Individua così 14 parlate popolari e alla fine, dopo averle esaminate ed aver espresso un giudizio positivo sul volgare dotto bolognese, propende per la superiorità del fiorentino usato da pochi, colti e raffinati. Asserisce che questo volgare illustre italiano (il problema della lingua letteraria unitaria è dunque l’oggetto del suo studio) può essere utilizzato sia in prosa sia in versi, ma deve essere utilizzato solamente per scrivere di argomenti degni.
Stefano Mazzacurati, a conclusione, intrattiene i Soci della Dante sulla lingua in uso oggi e spiega la differenza fra “volgare”, che significa “del popolo” al tempo di Dante, e “volgare”, che assume una valenza assolutamente negativa dopo il ‘500.
Si sofferma sul linguaggio politico di oggi che mira a colpire le emozioni degli elettori, anche attraverso internet, emoticon e FaceBook, convinto che ora prevalga una lingua spregevole e scorretta che può facilmente portare ad atteggiamenti consequenziali. “Le chiacchiere hanno sostituito il ragionamento”, accompagna queste parole con molti esempi tratti da quotidiani e riviste, inutilmente ma provocatoriamente scurrili.
Mazzacurati dà la sua ricetta per uscire da questa pericolosa deriva: leggere, studiare, incontrarsi per dialogare. Questi sono gli strumenti, anzi le armi per una vera rivoluzione contro i populismi, la finta libertà di parola e l’apparente democrazia.
Lori Carpi
ultimo aggiornamento della pagina: 27 maggio 2018