A volte il conoscere la vita personale dei vari artisti (scrittori, poeti, pittori, scultori, incisori, architetti) aiuta a comprendere le loro opere, perché spesso nelle stesse opere si rispecchia la loro personalità, la quale si forma, si sviluppa ed emerge nel corso della concreta esistenza.
Questo vale certamente e soprattutto per Dante, che ha fatto della propria esistenza la ragione delle proprie opere.
Una vita difficile, da esule, lontano dalla sua Firenze, i cui governanti lo avevano condannato a morte per ben due volte.
Eppure senza il suo esilio, come aveva a suo tempo intuito Giosue Carducci, non avremmo avuto la Divina Commedia, un capolavoro della letteratura universale.
Non solo, ma la Divina Commedia, come anche altre opere dell’esilio (Convivio, Eloquenza volgare, Monarchia) è frutto delle sue profonde convinzioni religiose e politiche, del suo grande amor patrio per Firenze e per l’Italia, della sua missione civile tesa ad indicare alle genti del suo tempo le cause ed i motivi delle divisioni, delle lotte, delle ingiustizie per riaffermare i grandi valori della pace, della libertà e della giustizia.
Per queste ragioni, nell’anno dedicato alle celebrazioni del settimo centenario dantesco, la Società Dante Alighieri di Parma nell’organizzare un ciclo di video conferenze dedicate tutte al Sommo Poeta e svolte da vari relatori, ha ritenuto opportuno iniziare con un incontro volto a ricordare i fatti salienti della vita di Dante.
Il relatore Italo Comelli, dopo aver precisato che sono estremamente ridotte le notizie certe e attendibili sulla vita di Dante, sia in riferimento alle date che ai suoi spostamenti prima e dopo l’esilio, ha delineato la figura del poeta nel contesto delle vicende storiche del suo tempo.
Si è quindi soffermato su Firenze, la famiglia di appartenenza, i suoi studi, le amicizie che lo hanno introdotto in un ambiente sociale più alto, le sue composizioni poetiche giovanili (le rime, il Fiore, il Detto d’Amore, la Vita Nuova), l’incontro con Beatrice, il matrimonio con Gemma Donati, la sua partecipazione come cittadino alle guerre decise dal governo fiorentino (Campaldino, Caprona), fino al suo impegno civile diretto negli organismi comunali.
Dopo essersi iscritto nel 1295 alla corporazione dei medici, speziali e merciai, Dante ha preso parte a vari consigli (Consiglio dei 36 del Capitano del Popolo, Consiglio dei Cento), è stato ambasciatore a San Giminiano, fino a ricoprire, con altri, la suprema carica di Priore nel 1300,in un governo guelfo di parte bianca.
Da lì, come riconosce lo stesso Dante, ebbero inizio tutti i mali e le sue disavventure.
La sua opposizione nel 1301 alle richieste di papa Bonifacio VIII, ed il ribaltone politico nel governo fiorentino con la presa del potere da parte della fazione nera, generarono accuse, processi e la condanna a morte per rogo nel 1302.
È l’inizio dell’esilio. Dante si riterrà sempre innocente, e colpito immeritatamente. “L’essilio che m’è dato onor mi tegno” (R 44) “Cader coi buoni è pur di lode degno” (R 44)
Dopo infausti tentativi di rientrare a Firenze (1303-1304), Dante si ritrova nella condizione di pellegrino esule, costretto a mendicare l’ospitalità presso varie famiglie ghibelline. “Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui e come duro calle/ lo scendere a salir per l’altrui scale” (Par XVII 58-60).
Tra le varie famiglie che lo hanno ospitato, il relatore si è soffermato sui Malaspina di Lunigiana, gli Scaligeri di Verona, gli Ordelaffi di Forlì, i da Polenta di Ravenna.
Nel suo esilio durato quasi vent’anni, Dante farà sentire la sua voce non solo attraverso la pubblicazione delle due cantiche dell’Inferno e del Purgatorio, ma anche inviando epistole ai fiorentini, all’imperatore Arrigo VII, ai cardinali riuniti in conclave nel 1314, a Cangrande della Scala.
Nel 1315 il governo fiorentino concede un’amnistia ai fuoriusciti esuli, purchè venga riconosciuta la colpa commessa mediante un cerimoniale consistente nel recarsi con un berretto in capo e una candela accesa in Battistero e pagare una modesta multa.
Dante, consapevole della propria innocenza e del proprio valore respinge la richiesta, subendo una seconda condanna a morte mediante decapitazione.
In un’epistola ad un amico, scrive: “È dunque questo il liberale invito pel quale è richiamato alla patria Dante Alighieri, dopo le sofferenze di un esilio press’a poco trilustre? E questo merita la sua innocenza a tutti quanti palese? No: non è questa la via per ritornare in patria… ma se Fiorenza non mette capo a un’altra strada, a Fiorenza io giammai tornerò” (ep IX)
Sappiamo come Dante amasse Firenze, come amasse il suo battistero “il bel San Giovanni” come desiderasse ritornare ed indossare un diverso cappello, la corona di poeta.
Ancora una volta una testimonianza di vita che si rispecchia nella sua opera:
“Se mai continga che il poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra
sì che m’ha fatto per più anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello.”
Par XXV 1-9
ultimo aggiornamento della pagina: 5 marzo 2021