Relatore: Fausto Cremona
“L’amore infernale” di Francesca e Paolo è stato trattato dal prof. Fausto Cremona lunedì 4 marzo 2018.
Il relatore, dopo aver premesso che il V dell’Inferno, il canto di Francesca, è probabilmente il più «letto», interpretato, commentato, “usato” e “consumato” dell’intera Comedìa, introduce le caratteristiche di quell’amore che è diventato un’iperbole: “infernale”, qualcosa di straordinario, di “sacrale” addirittura, di tremendum e di fascinans, che tutti attira spaventando, o tutti spaventa attirando.
Francesca, collocata nell’Inferno, coi lussuriosi, angoscia lo stesso Dante che soffre con lei, sviene, ma continua il suo cammino verso l’alto, senza contestare il giudizio di Dio.
Dante, “carnefice pietoso”, così lo definisce Borghes, che comprende, ma non perdona.
Il relatore invita a fermare l’attenzione non soltanto, o comunque, in modo privilegiato, sulla seconda parte del canto, dominata dalle tragiche figure di Francesca e Paolo, ma sull’intero segmento poetico.
La prima parte, infatti, è preparatoria e funzionale alla seconda, come si delinea se si divide il canto nel giusto mezzo (If. V, 70-72). In tal modo si evidenzia come la prima parte sia di progressiva preparazione ambientale e la seconda sia relativa al colloquio con i due cognati: la costruzione dello sfondo ed il primo piano del drammatico episodio. Due parti di identica misura (If. V, 1-71; 72-142) intimamente connesse l’una all’altra.
In realtà non è possibile leggere compiutamente la tragica esperienza dell’amore di Paolo e Francesca, se non la si proietta sullo sfondo ambientale e problematico delineato nella prima parte del canto, dove la scelta delle parole, delle immagini, delle situazioni è attentamente studiata in funzione degli effetti che il poeta si è proposto di ottenere nella seconda.
La terzina d’apertura del canto V, che si salda perfettamente con quella conclusiva del canto IV, ha il suo culmine nell’impatto con la mole maestosa e grottesca di Minosse: Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia:/ essamina le colpe ne l‘intrata;/ giudica e manda secondo ch’avvinghia… ( If. V, 4-6).
Minosse, che non ha il tono minaccioso ed aggressivo di Caronte, che non ha la violenza canina di Cerbero, né la rabbia belluina di Pluto. Minosse esamina i peccatori (essamina le colpe), li giudica e decide dove mandarli (giudica e manda).
È un amministratore della giustizia divina, anzi un “ministro”.
A questo punto il prof. Cremona introduce lo smarrimento Dante di fronte alla spiegazione di Virgilio ed esprime il desiderio di parlare a due ombre trasportate dal vento: Poeta, volentieri/ parlerei a quei due che ‘nsieme vanno,/ e paion sì al vento esser leggieri ( If. V, 73-75), dove leggeri esprime sia la passività dell’essere trasportati dal vento sia quella leggiadria ed eleganza che saranno proprie di Francesca.
Davanti a Virgilio poeta, Dante, anche lui ammesso alla bella scola, divenuto “nuovo poeta”, vuole dare prova sul campo del suo valore poetico, consapevole di riuscire a legittimare il titolo acquisito solo se saprà trasformare una sconosciuta relazione in un nuovo mito di amore e di morte. Dante sceglie così una storia inedita, così oscura che ha lasciato poche tracce tra le carte del tempo a tal punto che i particolari che l’hanno poi resa celeberrima si sono generati a margine del poema.
E il relatore introduce le terzine più famose della Comedìa (If. V, 100-107) con l’anafora più famosa del mondo: “L’amore che si accende rapidamente nei cuori sensibili, fece innamorare costui che è qui con me del mio bel corpo («persona»), che mi fu tolto, (perché fui uccisa), e l’intensità-(dis)misura ( il «modo») di quell’amore ancora mi avvince. L’amore che fatalmente coinvolge amante e amato, mi fece innamorare così intensamente della bellezza («piacer») di costui, che – come vedi – ancora non mi lascia. L’amore ci trascinò ad una medesima tragica morte. Questa colpa graverà in eterno l’anima di chi ci ha uccisi”.
Attraverso la figura di Francesca, Dante si confronta con la tradizione lirica e, in particolare, con il concetto che l’amore è una passione che ostacola il funzionamento della ragione.
E le parole di Francesca non esprimono né pentimento né riconoscimento del proprio peccato, ma incolpano amore in termini raffinati e seduttivi. È come se le formule della poesia lirica fossero diventate la “gabbia infernale”, e cioè l’eterna realtà infernale di Francesca.
Maria Pia Bariggi
ultimo aggiornamento della pagina: 26 marzo 2019