La sentenza e Il rivoluzionario:
i due ultimi romanzi
presentati da Valerio Varesi

La sentenza

1944, carcere di San Francesco a Parma. Il rombo degli aerei alleati fa tremare le pareti e il cuore di uomini capaci dei delitti più atroci, adesso tutti pronti a sostituire con il crocefisso la pistola o il coltello. Tranne uno. Lo chiamano Bengasi, perché è stato nella Legione straniera, dove si era rifugiato per sfuggire ai molti guai combinati in gioventù. È un avventuriero inquieto e per lui le bombe sarebbero una liberazione.
Stesso anno, stessa notte. Carcere di San Vittore a Milano. Il bombardamento della città, uno dei tanti ormai, sfiora le mura senza toccarle. Un gruppetto di prigionieri comuni è convocato dalla guardia fascista.
Tutti temono il peggio, ma ce n’è uno che nella vita è sempre riuscito a cavarsela, sempre ai margini, sempre disposto a tutto. Forse, pensa, anche questa è un’opportunità.
Bengasi riesce a scappare, e sa che la sua unica possibilità di salvezza è la guerriglia, quella dei partigiani nascosti lì, tra le montagne. L’altro coglie al volo la proposta del fascista e accetta di infiltrarsi nella Quarantasettesima brigata Garibaldi, partigiani del Parmense, come spia: non è la prima volta che fa un lavoro sporco, e comunque è sempre meglio che rimanere rinchiuso in una cella. Accetta anche il suo nome di battaglia, Jim, che gli viene affibbiato con ironico disprezzo, citando Conrad.
Jim e Bengasi sono due uomini ai quali una notte ha cancellato il passato e regalato un futuro. Sono due partigiani per caso. La montagna unisce i loro destini, l’amicizia li rende inseparabili. Oltre le donne, il sesso, la violenza, l’amore, il tradimento, la morte. Nonostante tutto, la guerra li farà diventare eroi e questa è la loro storia. Forse la loro leggenda.

 

Valerio Varesi, La sentenza

Vorrei cominciare queste note dalla questione all’apparenza più spinosa: come si possa oggi scrivere un romanzo sulla lotta partigiana, quando allo stesso Calvino nel ’46, accingendosi al Il sentiero dei nidi di ragno, la “letteratura della Resistenza” parve così “impegnativa e solenne” da trarsi dall’impaccio affrontando il tema non di petto ma di scorcio, affidando il punto di vista ad un bambino, “in un ambiente di monelli e vagabondi”.

Valerio Varesi

Valerio Varesi


Ci possono essere ragioni legate ai fondi interiori da cui trae ispirazione ciascun autore e ragioni che appartengono al contesto culturale di un’epoca. Fra le prime ragioni si può notare in molti romanzi di Valerio Varesi l’esigenza di fare i conti col passato: sfondi drammatici di amori ed odi non elaborati, figure spesso irrisolte di vecchi partigiani, personaggi a volte “secondari”, ma tematicamente decisivi, per i quali lo strazio nasce dal vedere come quell’età di eroici furori si sia impaludata nel disincantato e cinico presente (cose analoghe si potrebbero dire per le vicende dell’Oltretorrente antifascista di Guido Picelli o per quelle studentesche degli “anni del dissenso”). Fra le seconde ragioni è da annoverare la sua dichiarata volontà, in un altro ampio segmento della sua produzione, di fare del giallo una forma del “romanzo sociale”, ponendosi, ma senza forzature programmatiche, nel solco di una parte consistente della letteratura contemporanea: quella che ha abbandonato le forme manieristiche o giocose o estetizzanti o metanarrative del “postmodernismo” (oggi in crisi anche sul versante filosofico perché sormontato da una nuova esigenza di “realismo”) per cimentarsi in modo più diretto con la realtà. Nella speranza, dico io, che i contenuti non facciano dimenticare la forma letteraria, perché, per citare ancora Calvino, “quel che conta è la musica e non il libretto”: pericolo che non corre Varesi per il quale l’orchestrazione narrativa e il ritmo linguistico sono l’assillo continuo del suo mestiere di scrittore.
Ma a me pare che qui ci sia un terzo tipo di ragione che risponde in modo ancor più convincente alla domanda iniziale: “Perché oggi un romanzo sulla lotta partigiana?”
Lo dico subito: l’inattualità. La sentenza è un romanzo felicemente inattuale. Viviamo, come mai in altre epoche, inseguendo l’attualità ed essendone inseguiti. Ci nutriamo quotidianamente di dosi massicce di informazioni che costituiscono il nostro orizzonte e configurano il nostri modelli mentali. Il pericolo è non avvertire più come fecondi orizzonti e modelli diversi. Il pericolo è in sostanza è quello di non far vivere altre parti, altrettanto importanti, di noi stessi. Quali sono in questo romanzo “le altre parti di noi stessi”?
In questa storia partigiana fra la valle dell’Enza e quella della Parma, fra il Ventasso e il Fuso, sono protagonisti dei giovani coi loro progetti, con le loro voglie. Per tutti in qualche modo l’esperienza di quei mesi del ’44 è un percorso di formazione, e La sentenza assume le forme nobili del Bildungsroman. Bengasi vuol sentirsi vivo nell’azione e spende la sua vita in questa spavalda volontà ma divenendo consapevole dei limiti di quella spavalderia; Ilio impara faticosamente che la ragione rivoluzionaria fa fatica a reggere il peso della complessità; Jim viene posseduto a poco a poco da sentimenti sempre più complessi: il disagio, l’affezione per i compagni, la vergogna, il desiderio di riscatto. E poi c’è quel cruciale capitolo 31 in cui il percorso nella notte di Jim e Bengasi costituisce la mise en abîme dell’intero percorso di formazione dei due protagonisti. Cosa c’è di più inattuale in un’epoca in cui la “in-formazione” è una parola in cui il nome viene oscurato dal suo prefisso?
E poi c’è l’avventura, quella vera, nell’epoca dei videogames. Le bande partigiane si muovono nei boschi, sulla china dei monti, lungo l’argine dei torrenti, sulle strade provinciali fra assalti, cacce, fughe, inseguimenti, imboscate, rastrellamenti con quell’andamento continuo, con quella scioltezza giovanile che solo alcuni libri possiedono, e fra essi il capolavoro (inattuale e anacronistico anch’esso!) della letteratura resistenziale, Una questione privata di Beppe Fenoglio. Un movimento, per altro, che rimonta ad una delle tradizioni letterarie più pure, quella del romanzo cavalleresco. Così i nostri combattenti sembrano a volte quegli antichi cavalieri, ai quali per troppa precipitazione poteva capitare di girare a vuoto: “La prima impressione è che non sappiano bene cosa vogliono. Un po’ inseguono, un po’ duellano, un po’ giravoltano, e sono sempre sul punto di cambiare idea”.
E, infine, mi pare esserci nel romanzo un altro elemento di feconda inattualità. Questo aggirarsi nei boschi in nome di un progetto rivoluzionario o per spavaldo vitalismo o per odio o per passione amorosa è iscritto in una toponomastica rigorosa (ed affettuosa) di borghi, case coloniche, colline, boschi, vette; è scandito dagli spari, dalle urla concitate, dal rumore dei camion: poi l’azione drammatica lascia il posto al silenzio dei luoghi, all’odore degli alberi e dello stallatico, al canto degli uccelli, al movimento delle nuvole, al cangiare delle luci. È come se la natura innocente ed indifferente si prendesse uno spazio, in questa nostra epoca frettolosa e concitata, per rammentarci i limiti invalicabili di ogni azione umana.

Recensione di Alessandro Castellari – Carmilla


Il rivoluzionario di Varesi
recensione di Giuseppe Marchetti
apparsa sulla «Gazzetta di Parma»
il 27 gennaio 2013

Molti anni fa, esattamente nel 1956, concludendo il proprio ampio saggio sulla «Letteratura della Resistenza» (Edizioni 5 Lune) Angelo Paoluzzi scriveva: «Il panorama che si è voluto offrire al lettore si chiude con un interrogativo: saprà la Resistenza continuare ad ispirare altre opere, altre ricerche, altre sintesi? Secondo noi sì, nella misura nella quale la cultura riconoscerà a sé stessa il diritto e il dovere di approfondire la conoscenza di quel periodo che è stato il punto di partenza per un mutamento fondamentale della vita civile italiana». Paoluzzi aveva ragione. Infatti, dopo la prima serie di memorie, testimonianze e cronache, durante gli anni Cinquanta e Sessanta, cominciò ad affermarsi una narrativa più matura e sicura alla quale appartengono opere di alto valore letterario come le «Cinque storie ferraresi» di Bassani, «I superflui» di Arfelli, «L’uomo di Camporosso» e «Il figlio di Caino» di Seborga, «Tutti i nostri ieri» della Ginzburg e «La ragazza di Bube» di Cassola, per fare solo qualche nome e titolo tra i tanti che vengono in mente. Ma: dopo? Dopo, in realtà, tolto il gran ciclo di «Una storia italiana» di Pratolini e «Il partigiano Johnny» di Fenoglio, le intenzioni cominciarono a confondersi, quasi a stralunarci, e anche in un romanzo di classe come «La Quarantasettesima» del nostro indimenticabile Ubaldo Bertoli, s’avvertì una certa naturale stanchezza e come un riversamento verso motivazioni più recenti, l’operaismo, ad esempio, e i conflitti tra fabbrica e lavoro, tra città e campagna, anzi meglio tra città e periferie. Vennero i libri di Volponi, di La Capria, di Ottieri, di Silone, di Rimanelli, e Pavese, Vittorini, Fenoglio e Arrigo Benedetti parvero lontani, ormai, molto lontani.
Di colpo, invece, adesso ritroviamo quella memoria, quel timbro umano e quelle voci nel nuovo romanzo di Valerio Varesi «Il rivoluzionario» (Frassinelli editore). Di colpo ci sentiamo trascinati verso «l’alba della Liberazione», cioè in quella atmosfera eccitata ed eccitante che seguì come un vento di rivoluzione la fine della guerra sull’ala di una speranza quasi impossibile, quella di cambiare il mondo, di cambiarlo dalle fondamenta in nome e per conto di chi aveva combattuto e di chi era morto per quella luminosa utopia. L’Emilia in particolare fu terra di simili uomini. E qui non possiamo non ricordare un altro libro di eccezionale rilevanza letteraria e umana, «Il comunista» (1976, ma in realtà steso più di dieci anni prima) di Guido Morselli: un romanzo di rivoluzione e di idee, che rivela la dolorosa, profonda e radicale nostalgia del militante comunista puro per il tempo di Stalin, il tempo della fede, assieme alla sofferenza di chi vive il crollo di un mondo sino a pochi anni prima rappresentato, impervio e indiscutibile, dal partito. Uomo di Reggio Emilia, quello di Morselli, uomo di Bologna quello di Varesi, questo Oscar Montuschi per il quale – scrive il narratore – tutto quello che avviene è il prodotto pericoloso di una «restaurazione strisciante», la peggior fregatura che possa capitare. Varesi si è accostato ai tempi e ai personaggi con una vivacità indescrivibile, vi si è precipitato dentro riaprendo proprio quelle tematiche, quelle suggestioni, quelle calde speranze e quelle patite illusioni che il dopoguerra – anzi, meglio, il doporesistenza – aveva alimentato prima e frantumato poi con i primi governi democristiani. Naturalmente, il romanzo storico di Varesi è anche un romanzo d’amore, e di sentimenti, con Italina e Dalmazio, ma parimenti valgono le amicizie di guerra e di partito, cioè quelle rinsaldate e protette dai comuni ideali, mentre sullo sfondo si proiettano alcune grandi ombre, Dossetti, Nasalli Rocca e Lercaro cardinali, Tambroni, De Gasperi, Scelba e il sindaco Dozza. La cronaca di quegli anni e di certi particolari giorni entra nel romanzo e lo fa palpitare. Indimenticabili, ad esempio, le pagine dedicate ai tumulti di Bologna dopo l’attentato a Togliatti, le sequenze di disorientamento e sbigottimento al partito. E singolari inoltre le «disgressioni» che Var sui fatti di Ungheria e sui primi e incerti commenti davanti alle incrinature che si erano aperte nel compatto muro dei consensi esi ha applicato al filone principale del racconto, cioè le permanenze di Oscar in Russia e in Africa, a Mosca alla scuola del Partito Comunista, in Africa tra i rappresentanti del Frelimo. Con il passare degli anni, però, Oscar diventa sempre più «un uomo scomodo che non piaceva né ai comunisti né ai reazionari» e lui stesso «cominciava a sentirsi sempre più solo in quel mondo in cui le ruspe dominavano la scena». Davanti al mondo che cambia e all’Italina che gli mormora «È passato un po’ di tempo, sono invecchiata», Oscar dirà «Siamo invecchiati». E al figlio Dalmazio che va a trovarlo in ospedale, ripeterà la frase di Berlinguer «abbiamo esaurito la spinta propulsiva». E così, nei giorni dell’omicidio Moro, quando le Brigate Rosse mettono in crisi tutto il sistema del tradizionale impianto politico, Oscar, con Italina e alcuni vecchi compagni di partito, metterà in piedi una cooperativa per persone dimesse dai manicomi e ragazzi handicappati secondo i piani di Franco Basaglia e Mario Tommasini. Il romanzo scivola rapidamente verso il silenzio: tutta una storia della nostra storia finisce qui. Recuperando la cronaca, Varesi non può dimenticare la strage della stazione di Bologna, gli affari della Loggia P2, il terremoto dell’Irpinia e il ferimento di papa Woijtila, ma in pratica il romanzo si chiude e non si aggiungono che dati e nomi. Costretti alla resa i vecchi comunisti eretici non si voltano nemmeno più indietro, e il narratore li contempla finalmente in tutta la loro orgogliosa fragilità.

ultimo aggiornamento della pagina: 18 aprile 2013