L’arte
di Sebastiano del Piombo

Relatore: Mauro Lucco

Lunedì 9 novembre 2015 la “Dante” di Parma ha ospitato il prof. Mauro Lucco docente di Storia dell’arte moderna all’Università di Bologna.

Curatore per Electa della serie Pittura nel Veneto, ha dissertato su “l’arte di Sebastiano del Piombo”.
Sebastiano del Piombo, nato da Luciano Luciani a Venezia verso il 1485, secondo la testimonianza di Vasari, che lo dice morto a sessantadue anni nel 1547, è protagonista di una straordinaria vicenda artistica come sperimentatore di pittura ad olio su muro e insuperato ritrattista che si confrontò con orgoglio e successo con Raffaello. È inoltre protagonista di una straordinaria vicenda umana in virtù della quale da amico di Michelangelo ne divenne nemico”; da pittore lento e perfezionista passò al non fare, “infingardo e negligentissimo” come frate della piombatura apostolica.

Proprio il Vasari, che resta la principale fonte di informazione sulla sua vita, riporta che appartenne a una famiglia abbastanza agiata e che la sua prima professione fu quella di musicista, «perché oltre al cantare si dilettò molto di sonar varie sorti di suoni, ma sopra il tutto il liuto, per sonarsi in su quello stromento tutte le parti senz’altra compagnia […] Venutagli poi voglia, essendo ancor giovane, d’attendere alla pittura, apparò i primi principii da Giovan Bellino allora vecchio. E doppo lui, avendo Giorgione da Castelfranco messi in quella città i modi della maniera moderna, più uniti e con certo fiammeggiare di colori, Sebastiano si partì da Giovanni e si acconciò con Giorgione, col quale stette tanto che prese in gran parte quella maniera».

Il suo apprendistato avvenne dunque all’inizio del 1500 nel periodo in cui Venezia conquistava la terra ferma e le arti visive esaltavano le bellezze della natura.

Il relatore tratta con grande attenzione del periodo veneziano di Sebastiano del Pozzo sottolineando le tecniche compositive e pittoriche in varie opere quali le Ante d’organo per la chiesa di San Bartolomeo di Rialto (1507-09), commissionate da Alvise Ricci, vicario della chiesa dal 1507 al 1509 e la Pala di San Giovanni Crisostomo (1510-11) commissionata per testamento, il 13 aprile 1509, da Caterina Contarini Morosini, affinché fosse eseguita dopo la morte del marito Nicolò.

Il relatore prosegue con il periodo romano di Sebastiano del Piombo.

Fu Agostino Chigi, banchiere del Papa, uno degli uomini più ricchi e potenti del tempo, “Agostino il Magnifico”, a convincere Sebastiano del Piombo a seguirlo a Roma nell’agosto 1511 e ad entrare nella squadra che aveva riunito per rendere preziosa la villa sul Tevere che sarà nota come la Farnesina dal successivo proprietario. Qui già lavoravano Raffaello, padrone del mercato romano con le “Stanze Vaticane” (in “accesissima” rivalità con Michelangelo che nel 1512 svelerà la suprema volta della Sistina), il Sodoma, Peruzzi.

“La prima cosa che gli facesse fare furono gl’archetti che sono in su la loggia, la quale risponde in sul giardino dove Baldassarre Sanese aveva, nel palazzo d’Agostino in Trastevere, tutta la volta dipinta; nei quali archetti Sebastiano fece alcune poesie di quella maniera ch’aveva recato da Vinegia, molto disforme da quella che usavano in Roma i valenti pittori di que’ tempi». Sono le lunette affrescate nella villa della Farnesina con soggetti mitologici, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio.

Seguirono tante opere quali il ritratto degli Uffizi e il Ritratto del cardinale Ferry Corondolet e del suo segretario di Madrid; a questo periodo risale anche la Morte di Adone degli Uffizi, in cui grandi figure, marcatamente plastiche, coesistono un panorama di Venezia al tramonto.

Il prof. Lucco sottolinea come in questo periodo Sebastiano strinse un’amicizia con Michelangelo, inserendosi, suo malgrado, nella rivalità che si andava accendendo in quegli anni tra il Buonarroti e Raffaello, artisti di punta alla corte papale.

Per un dignitario pontificio di nome Giovanni Botonti, Sebastiano dipinse la Pietà di Viterbo, uno dei suoi capolavori più famosi.

Il cardinale Giulio de’ Medici (futuro papa Clemente VII, dal 1523) commissionò a Sebastiano e a Raffaello due opere per la cattedrale di Narbonne in Francia: Raffaello eseguì la Trasfigurazione, Sebastiano la Resurrezione. Fu ancora gara tra i due rivali: alla fine il cardinale deciderà di trattenere per sé la Trasfigurazione in quanto ultima opera eseguita da Raffaello (sarebbe scomparso nel 1520) e di inviare in Francia l’opera di Sebastiano, terminata nel 1519 e oggi conservata alla National Gallery di Londra.
Innumerevoli sono i ritratti: si tratta nella maggior parte dei casi di ritratti di ecclesiastici, mercanti, condottieri, nobildonne, sante: grandi figure dall’impianto piramidale, che occupano lo spazio della tela o della tavola quasi imponendosi, e limitando la superficie circostante a mero sfondo. I personaggi, stanti o di tre quarti, in piedi o seduti, occupano il pieno della scena, spesso non entrano addirittura nei margini del quadro, enfatizzando con una forte ostentazione corporea o con un eloquente gioco di mani, il loro ruolo sociale e politico. Si pensi al Ritratto di Anton Francesco degli Albizzi (Houston, Museum of Fine Arts), al Ritratto del Cardinale Ferry Carandolet e del segretario (collezione Thyssen-Bornemisza), al presunto Ritratto di Cristoforo Colombo (New York, Metropolitan Museum of Art), all’Andrea Doria (Roma, Galleria Doria Pamphili) ma sopratutto al Ritratto d’uomo in arme di Hartford.

Nel 1527 per evitare il sacco di Roma Sebastiano del Piombo si rifugiò a Venezia dove restò fino al 1529.
Clemente VII gli conferì l’incarico di piombatore, una sorta di Segretario di Stato addetto alla registrazione delle bolle pontificie, un incarico di alto prestigio per il quale Sebastiano fu costretto a indossare la tonaca di frate. Dall’incarico gli derivò il soprannome “Sebastiano del Piombo”. Da questo momento in poi la sua attività di pittore diventò sempre meno costante. Con la sicurezza economica infatti e l’abito da frate, Sebastiano “si sentì variare l’animo”. Potendo “soddisfare alle sue voglie senza colpo di pennello, se ne stava riposando”.

E quando doveva fare qualcosa “sembrava che andasse alla morte”. Molti lo avevano pagato per dipinti ad olio su muro o pietra, ma lui si dilettava maggiormemte nel ragionarne che nel farli.

Nel 1532 iniziò a lavorare alla Natività della Vergine per la cappella Chigi di Santa Maria del Popolo: l’opera sarà lasciata però incompiuta e verrà terminata da Francesco Salviati.

Nel 1534 si ruppe l’amicizia tra Sebastiano e Michelangelo; scrive Vasari che «avendosi a dipigner la faccia della cappella del Papa, dove oggi è il Giudizio di esso Buonarroto, fu fra loro alquanto di sdegno, avendo persuaso fra’ Sebastiano al Papa che la facesse fare a Michelagnolo a olio là dove esso non voleva farla se non a fresco. Non dicendo dunque Michelagnolo né sì, né no et acconciandosi la faccia a modo di fra’ Sebastiano, si stette così Michelagnolo, senza metter mano all’opera, alcuni mesi; ma essendo pur sollecitato, egli finalmente disse che non voleva farla se non a fresco, e che il colorire a olio era arte da donna e da persone agiate et infingarde, come fra’ Bastiano; e così gettata a terra l’incrostatura fatta con ordine del frate, e fatto arricciare ogni cosa in modo da poter lavorare a fresco, Michelagnolo mise mano all’opera, non si scordando però l’ingiuria che gli pareva avere ricevuta da fra’ Sebastiano, col quale tenne odio quasi fin alla morte di lui».

Così terminò in malo modo l’amicizia pluriennale con Michelangelo.

Negli ultimi anni la sua produzione pittorica rallentò fortemente, facendo slittare di molti anni la consegna delle commissioni. Ciò sembra attribuibile all’indolenza che ormai poteva permettersi di assecondare (come gli rimproverò più volte Vasari), forte del suo stipendio fisso come piombatore. Gli ultimi anni furono dunque per lo più inoperosi dal punto di vista artistico. Nel testamento del 1º gennaio 1547 nominò come eredi il figlio Giulio e i suoi discendenti, chiedendo di essere sepolto in Santa Maria Maggiore senza pompa. Il 21 giugno di quell’anno spirò nella sua casa presso la chiesa di Santa Maria del Popolo, dove infine fu sepolto.

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Mauro Lucco


Pietro Aretino

Pietro Aretino

Su indicazione di Isa Guastalla, che mi ha ricordato una lettera di Pietro Aretino a Sebastiano del Piombo, sono andata a cercare tra i miei libri qualche documento e mi fa piacere scrivere queste righe.

Il pittore Sebastiano Luciani, detto in tarda età Sebastiano del Piombo (Venezia, 1485 – Roma, 21 giugno 1547), deriva quel soprannome da piombatore pontificio, ossia guardasigilli delle bolle e delle lettere apostoliche, incarico ottenuto nell’autunno del 1531. Una sinecura concessagli da Clemente VII un po’ per meriti artistici e molto per essergli rimasto fedele durante il terribile sacco di Roma. Ottanta ducati annui per i quali Sebastiano aveva solo dovuto farsi frate: “se me vedessi frate”.

Il pittore e Pietro Aretino erano legati da forte amicizia come attesta un epistolario molto cordiale.

Il veneziano intorno al 1528-29 aveva fatto un ritratto all’amico, apprezzato senza riserve dal Vasari, il quale, oltre che per la perfetta somiglianza, ne esaltava la “pittura stupendissima, per vedervisi la differenza di cinque o sei sorti di neri che il poeta aveva in dosso: velluto, raso, ermisino, damasco e panno ed una barba nerissima sopra quei neri, “sfilata tanto bene, che più non può essere il vivo e naturale”. L’Aretino, poi, lo mandò in dono alla sua città natale, dove si trova tuttora. Purtroppo quello che oggi rimane del dipinto non ci permette più di apprezzarne i meriti coloristici.

In una lettera al poeta, del 4 dicembre 1531, Sebastiano diventato “piombatore pontificio” scrive:

“All’unico Messer Pietro Aretino, come fratello honorando.

Carissimo fratel mio, credo vi meraviglierete de la negligenza mia, et sia stato tanto a non vi scrivere, la causa è stata per non aver avuto materia che meriti il prezzo. Hora che Nostro Signor m’ha fatto frate non vorria vedesti a intendere che la frataria m’habbi guastato. Et che non sia quel medesimo buon compagno, che per il passato io son sempre stato…”

Molto intima e delicata è una lettera scritta, invece, dall’Aretino al pittore a cui rivela i suoi sentimenti di padre di una bambina:

“A Sebastiano Pittore, Frate Del Piombo

Ancora, padre, che a la fratellanza nostra non bisognasse altre catene, ho voluto cingerla con quelle del comparatico, acioché la sua benigna e santa consuetudine sia ornamento de l’amicizia, che la vertù istessa ha stabilita fra noi due eternamente. Piacque a Dio che fusse femina la creatura, ch’io per non traviare da la natura dei padri aspettava pur maschio, come non fusse il vero che le femine dal sospetto de l’onestà in fuora, la quale ben guarda chi è ben buono, ci sieno di più consolazione. ..la femina è la sede ove si adagiano gli anni canuti di chi la creò; né passa mai ora che i suoi genitori non godino de l’amorevolezza sua, la quale è una sollecita cura e una frequente sollecitudine inverso l’uso dei loro bisogni. Tal che non viddi sì tosto il mio seme con la mia simiglianza che, sgombrato dal cuore il dispiacere che altri si piglia per ciò, fui vinto in modo da la tenerezza de la natura che in quel punto sentii tutte le dolcezze del sangue. Ma il dubitare che ella morisse senza assaggiare dei giorni de la vita fu cagione che le feci dare il battesimo in casa, per la qual cosa un gentiluomo in cambio vostro la tenne secondo il costume cristiano; ma io non ve ne ho fatto più tosto motto, perché d’ora in ora abbiam creduto che ella se ne volasse in paradiso. Ma Cristo me l’ha riserbata per trastullo de l’ultima vecchiezza e per testimonio de l’essere, che altri a me e io a lei ho dato; onde lo ringrazio pregandolo che mi conceda il vivere fino al celebrar de le nozze sue. In questo mezzo bisognarà ch’io diventi il suo giuoco, perché noi siamo i buffoni dei nostri figliuoli; la lor semplicità tuttavia ci calpesta, ci tira la barba, ci percuote il volto, ci sveglie i capegli, onde ci vendono i basci, con cui gli suggiamo, e gli abbracciamenti, con che gli leghiamo per cotale moneta; ma non è diletto che aguagliasse un tanto piacere, se la paura dei sinistri loro non ci tenesse ogni ora gli animi inquieti. Ogni lagrimuccia che essi versano, ogni voce, ogni sospiro, che gli esce di bocca o dal petto, ci scuoteno l’anima. Non cade fronda, né si aggira pelo per l’aria che non sia piombo che gli caschi sopra il capo, uccidendogli; né mai la natura gli rompe il sonno o gli sazia il gusto che non temiamo de la lor salute; sì che il dolce è straniamente mescolato con l’amaro; e quanto più vaghi sono, più acuta è la gelosia del perdergli. Iddio mi guardi la mia figliuola; ché certo, sendo ella di una indole graziosissima, mancarei, s’ella patisse, non pur morisse.

Adria è il suo nome, ché ben doveva così nominarla, poi che in grembo de le sue onde per volontà divina è nata; e me ne glorio, perché questo sito è il giardino de la natura; onde io, che ci vivo, ho provato, dieci anni che ci son visso, più contentezze che, chi è stato costì in Roma, disperazioni. E quando la sorte m’avesse concesso lo starei insieme con voi, mi terrei felice; benché, an cor che stiamo assenti, io tengo un gran dono l’esservi amico, compare e fratello.

Di Venezia, il 15 di giugno 1537.”

(Lettera XXXI)

Lori Carpi

ultimo aggiornamento della pagina: 6 agosto 2018

 

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