Viaggio e scrivo -dice Silvia Ugolotti nell’incontro del 2 maggio 2022- appartengo ad una famiglia di viaggiatori, mio padre mi ha sempre raccontato storie di mare e mia nonna ultraottantenne, per fare un altro esempio, partì per Città del Messico da sola. Io sento un forte richiamo, quasi un’ossessione, per i viaggi nelle isole, che hanno una complessità e una poliedricità che altre terre non possiedono. Sono paradiso e inferno, libertà e prigionia; sono fatte di sabbia impalpabile e di rocce aspre e taglienti, sono piene di sole o di ghiaccio. Ne ho visitate e studiate tante per lavoro, ma per visitarle tutte non basterebbe una vita: sono 132mila, da quelle immense come la Groenlandia ai piccoli scogli solitari come Bishop Rock.
A Silvia Ugolotti piace citare Kahlil Gibran quando scrive che la vita stessa è un’isola: le sue scogliere sono speranze, i suoi alberi sono i sogni, i suoi fiori sono la vita solitaria, i suoi ruscelli sono la sete.
Racconta che anche Paolo Rumiz, viaggiatore attento e scrittore sensibile, decise di rimanere alcuni mesi su un’isola solo con un asino e un taccuino, convinto che l’isola sia un sensore dell’universo. Rumiz sostiene che queste terre circondate dal mare consentono di essere lontani dai luoghi del frastuono e dai rumori di fondo, e che qui le interferenze si annullano e i pensieri sono come disidratati.
La relatrice crede che le isole siano la proiezione dell’universo in scala ridotta: per questo diventa più semplice osservarlo e capire meglio chi siamo, aiuta a cogliere lo stretto rapporto tra la natura e l’uomo.
Di tutte le isole ricorda qualcosa, ad esempio in Groenlandia l’incontro con una inuit nella sua casa molto spoglia, di cui si vergognava. Ma l’imbarazzo di entrambe svanì quando si affacciò sulla terrazza e vide un panorama sublime: i monoliti di ghiaccio che rifrangevano la luce della baia. La vita lì è difficilissima, pecore e uccelli, pochi uomini che vivono solo di caccia e pesca, ma quella donna le disse che doveva restare perché aveva un debito con la sua terra. Per capirne il significato, Ugolotti ascoltò le sue storie e le antiche tradizioni del suo popolo e rimase colpita da quella relativa alla morte. Quando gli inuit sentivano avvicinarsi la fine, si ritiravano in un posto dell’interno, bellissimo, e si coricavano sul ghiaccio, in questo modo pagavano il loro debito alla terra.
La scrittrice racconta che ha imparato dagli isolani tre valori assoluti: tempo (occorre imparare la pazienza, a non avere fretta), essenzialità (seguire i ritmi della natura, non eccedere nei consumi, abituarsi a fare evitando chiacchiere inutili), sfumature (tenere conto dei dettagli, di ciò che procura armonia ed evitare le disarmonie).
Per finire ricorda le tante valigie fatte, le centinaia di partenze e di altrettanti approdi. Alcune destinazioni le sono state assegnate per lavoro, molte le ha cercate o vi si è trovata spinta da un richiamo interiore. Queste terre, con il mare intorno, rappresentano “il suo filo di Arianna”, scriverne un libro intitolato L’inquietudine delle isole per lei è stata una conseguenza naturale.
Lori Carpi
ultimo aggiornamento della pagina: 26 maggio 2022