Toscanini lettore di Dante

Relatore: Giuseppe Martini
13 novembre 2017

Uomo di letture ben più ampie di quello che molti hanno creduto, Arturo Toscanini – di cui nel 2017 ricorre il 150° anniversario della nascita e il 70° della scomparsa – ha dichiarato più volte di porre Dante Alighieri al primo posto assoluto nella sua personale gerarchia di poeti preferiti, se ne dichiarava lettore fin dalla gioventù e, secondo le testimonianze, era in grado di declamare interi canti della Commedia a memoria.

Queste informazioni sono per lo più affidate a lettere di Toscanini stesso (alla pianista Ada Mainardi: 4 e 6 settembre 1937, 1° luglio 1938), ma anche a testimonianze dirette (il poeta Renato Simoni, il figlio Walter). Da qui si desume inoltre che Dante rientrasse in un Parnaso toscaniniano di autori favoriti che comprendeva anche Leopardi, in assoluto al secondo posto, Pascoli, Shakespeare, Shelley, Keats, Byron e Carducci; e che, a fianco di compositori come Verdi, Wagner, Beethoven, diveniva per Toscanini – secondo un sentire in linea con la sua epoca – una voce dell’assoluto, in consonanza alle più possenti visioni della natura (al cognato Enrico Polo, 14 luglio 1905: “Siamo saliti al Monte Bianco: Dante, Beethoven, Wagner!!! Vibriamo d’entusiasmo”) e comunque una personalità superiore in grado di rispondere all’inquieta carica inespressa che lo stesso Toscanini sentiva dentro (alla moglie Carla, 5 gennaio 1931). La sensibilità linguistica del lettore non era superficiale: una lettera alla Mainardi del 2 luglio 1938 in cui Toscanini affianca Purgatorio, I, 117 (“conobbi il tremolar della marina”) a Eneide, VII, 9 (“splendet tremulo sub lumine pontus”), inferendo un’influenza virgiliana su Dante, dimostra il probabile raggiungimento attraverso una riflessione personale di un luogo critico già posseduto dall’italianistica del tempo.

Infine, ricordiamo che in segno di riconoscenza dopo il concerto diretto a Fiume nel 1920 e conoscendo la sua passione per Dante, Gabriele d’Annunzio fece dono a Toscanini di una xilografia di Adolfo De Carolis che raffigurava un busto di Dante coronato d’alloro con le mani su una copia della Commedia aperta sulla pagina finale.

Fra tutte, la dichiarazione più interessante e proficua è però quella contenuta in una lettera alla Mainardi del 24 ottobre 1937 nella quale rivela di aver segnato a lapis sulla propria partitura della Nona sinfonia di Beethoven, all’altezza delle ultime 35 battute del primo movimento (Allegro ma non troppo, un poco maestoso) “dove comincia come una specie di marcia che conclude quel tragico movimento”, la prima terzina dell’iscrizione sulla porte dell’Inferno (III, 1-3): “Tutte le volte che suono o dirigo quelle battute la celeberrima terzina dantesca mi suona nel cervello… Dante e Beethoven! C’è da sentirsi tremare i polsi!”.

A parte il parallelo fra la prima cantica dantesca e le sinfonie beethoveniane che Toscanini poteva leggere in un volume di sua proprietà (Arnaldo Bonaventura, Dante e la musica, Livorno, Giusti, 1904), tuttora nella collezione toscaniniana nel Conservatorio di Parma, e a parte un’analogia formale fra la ripetizione dell’inciso della marcia e l’anafora della terzina dantesca, si noterà che gli stessi versi sono riportati in calce anche all’inizio della Dante Symphonie di Liszt, il terzo tema della quale ha vaga affinità con la marcia beethoveniana in questione.

La dichiarazione di Toscanini, tuttavia, autorizza a tentare un’analisi ardita e sperimentale, ma non avara di profitti, cioè comprendere il Dante di Toscanini attraverso il Beethoven di Toscanini. Non meraviglia che anche nella Nona i tempi esecutivi di Toscanini siano ben più sostenuti rispetto alle interpretazioni dei maggiori direttori del suo tempo (sia stato o no influenzato dai suggerimenti del manuale di Felix Weingartner sull’interpretazione beethoveniana, che possedeva) e ovviamente anche alla linea intellettualistica tedesca che da Furtwängler arriva a Claudio Abbado (nei campioni presi in esame, le battute 512-547 sono eseguite da Toscanini in 49”, da Herbert von Karajan in 1’01”, da Otto Klemperer in 1’04”, da Abbado in 1’11”, da Furtwängler in 1’12”, da Hermann Scherchen in 1’16”): il che non basta da solo a spiegare la drammaticità estrema dell’interpretazione toscaniniana (Bruno Walter, pur impiegando appena 54”, vi conferisce un colore ben più danzante). Si nota semmai che Toscanini, a differenza di tutti gli altri colleghi, oltre a conferire alla marcetta iniziale una dinamica irregolare, tutt’altro che traurig (mesta) come da tradizione tedesca, non fa coincidere il culmine della climax – prodotta dal crescendo degli archi che progressivamente travolgono i segmenti assertivi in cui si è sciolto il ritmo di marcia – con la cesura che immette al ritorno del primo tema della sinfonia (battuta 539), bensì quattro battute prima, nel mezzo di quel crescendo, come se non riuscisse a opporsi all’insostenibile spinta emotiva che gli archi suggerivano dal profondo, per rimanere poi in un attonito sconcerto che si risolve nel consummatum est della rapinosa cadenza finale. È il sentimento del dannato che, di fronte a quelle parole, comprende che per lui non c’è più un ritorno. Per Toscanini dunque l’espressione del sentimento è così trabocchevole da non riuscire a ubbidire alle leggi della retorica: è cioè più forte degli strumenti linguistici che dovrebbero garantirne la trasmissione. Toscanini non segue perciò la logica delle forme, ma quella della drammaturgia. Se l’apposizione della terzina dantesca a quelle battute musicali ha un senso, e certamente lo ha, conferma che Dante, per Toscanini, è il poeta dell’ineffabile, di tutto ciò che non coincide con gli apparati del linguaggio, cioè della cultura, o per meglio dire li trascende. E non a caso nelle sue lettere lo evoca sempre in associazione a sentimenti amorosi o alla potenza assoluta della natura.

Un’altra osservazione sulla conoscenza toscaniniana di Dante si può compiere circa una lettera alla Mainardi del 10 novembre 1937. Qui, nel definirla “l’unica donna al mondo che racchiude in se stessa tutto quello che la mente mia poteva imaginare – e l’anima mia adorare”, Toscanini parafrasa Paradiso, XXXIII, 19-21: “In te la somma grazia – in te beltate / in te la gentilezza – in te s’aduna / quantunque in creature è di bontade”; concludendo: “E perciò ti amo”. Dunque “somma grazia” al posto di “misericordia”, “beltade” al posto di “pietade” e “gentilezza” al posto di “magnificenza”.

Le sostituzioni lessicali di Toscanini non sono banali. La sfera semantica dei tecnicismi stilnovistici è congrua; in Paradiso, XXXI, 88 Dante si rivolge a Beatrice con le parole “La tua magnificenza in me custodi” e in Inferno, II, 94 la Madonna è definita “gentil”, autorizzando l’interscambio di “magnificenza” e “gentilezza” secondo il tipico schema stilnovista di sovrapposizione delle figure femminili terrena e divina; ed è inutile ricordare che la “donna gentile” che Dante vede da una finestra nella Vita nuova è anche “pietosa”; e, soprattutto, nella scelta della parafrasi ordita da Toscanini può aver interferito il sonetto “Vede perfettamente ogni salute” nella stessa Vita nuova: “Vede perfettamente ogni salute / chi la mia donna tra le donne vede; / quelle che vanno con lei, son tenute / di bella grazia a Dio render mercede. / E sua beltade è di tanta virtute, / che nulla invidia all’altre ne procede; / anzi le face andar seco vestute / di gentilezza, d’amore e di fede” (corsivi nostri). Dando per scontati i numerosi e ovvi riferimenti da Guinizzelli in poi alla famiglia semantica della “gentilezza”, è evidente perciò che, pur senza averne testimonianza, Toscanini fosse anche forte lettore del Dante stilnovista. Né si esclude che fosse stimolato in questa direzione dal libro di Piero Misciattelli Dante poeta d’amore, ricevuto in dono nel 1936.

Inoltre, con malizia quasi junghiana, si osserva che qui Toscanini sostituisce parole che indicano un movimento di virtù dalla donna angelicata verso l’uomo con parole che indicano un movimento di ascesa dell’uomo verso la creatura femminile divinizzata. Tradisce cioè la soggettivizzazione egocentrica dell’esperienza amorosa in un processo di ascesa perfettamente parallelo a quello concepito nella sua attività artistica.

Apparentemente estraneo ugualmente al Dante dottrinale e al Dante preraffaellita, Toscanini leggeva dunque la poesia dantesca come accesso alla sfera dell’assoluto, ed è per questo che sembra ritrovarla sempre in qualcos’altro (nel Monte Bianco, in Beethoven, nella donna amata). La afferra sul piano più moderno e immediato, cioè come esperienza del singolo che trascende il mondo con il bagaglio della propria finitezza e inclinazione alle passioni. Dell’ambito stilnovista non coglie il gioco spirituale collettivo dei poeti, ma la sublimazione del soggetto attraverso il sentimento. Il suo connaturato impatto non mediato con la realtà gli rende lampante che in Dante il risvolto morale supera qualsiasi altra componente di pensiero. La Commedia è per lui battaglia fra la passione dirompente e la necessità di disciplinarla in una volontà ferrea, che è la sintesi della sua esperienza storica di musicista che sulla partitura faticosamente procede dalla lettera allo spirito attraverso il tormento delle prove e di una folgorante capacità intuitiva, come quelle del “geomètra che tutto s’affige” a cui alla fine si rivela almeno un barlume di bellezza e verità.

In Dante, Toscanini trovava autorevole giustificazione per porre l’arte, cioè se stesso, al di sopra di tutto, in quanto apice morale della attività umana, méta superiore equivalente all’ascensione trascendente dantesca.

In questo senso, bene si colloca l’osservazione di un dantista americano, Walter Arensberg: “Toscanini è il San Bernardo dei direttori: egli guida al trono celeste”.

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ultimo aggiornamento della pagina: 10 dicembre 2017